Non è colpa della tecnologia
L’innovazione non fallisce mai per motivi tecnici, ma culturali, organizzativi e aziendali.
Eccoci di nuovo qui con voi per il nostro consueto appuntamento settimanale sul mondo della Business Intelligence, che in queste righe e nella nostra visione, è sempre davvero per tutti.
Oggi tocchiamo quota 103 e insieme a voi vogliamo riflettere su uno dei temi più delicati e fraintesi della trasformazione digitale: parliamo dei cosiddetti fallimenti.
Cioè di quei progetti che non decollano, di soluzioni abbandonate, di promesse non mantenute, di gestionali super innovativi finiti a prendere polvere in un cassetto. Però come sempre, prima di lanciarci nel tema, alziamo il volume delle casse e accompagniamo la lettura con un po’ di musica dalla nostra playlist Spotify Data Grooves:
🎵 “Human Behaviour” — Björk, Debut (1993)
Perché dietro ogni sistema intelligente, dietro ogni algoritmo e ogni software, ci sono sempre — inevitabilmente — esseri umani, con i loro comportamenti, abitudini e paure.
Montare un motore da Formula 1 su una vecchia Panda non la trasforma in una monoposto da gara.
Vabbè, ovvio, direte voi. È una frase banale, forse già sentita mille volte. Eppure raramente riusciamo davvero a farla nostra. Perché un fenomeno simile si ripete ogni giorno in moltissime aziende: si introducono nuove tecnologie su vecchi modelli organizzativi e ci si sorprende se la macchina non corre.
Secondo Deloitte, oltre il 70 % dei problemi che si riscontrano nei progetti di innovazione nasce da questioni organizzative e di processo, non da errori tecnici o limiti della tecnologia.
Il resto è pura statistica: la maggior parte delle iniziative digitali non fallisce perché il software non funziona, ma perché l’organizzazione non è pronta a cambiare.
Il motivo è semplice, ogni volta che introduciamo un nuovo strumento, alteriamo equilibri, abitudini, ruoli. Non stiamo solo implementando una funzione: stiamo ridefinendo un sistema vivente.
Il mito della tecnologia salvifica
Ogni decennio ha avuto la sua promessa tecnologica: ERP, CRM, Cloud, Blockchain, oggi l’Intelligenza Artificiale e anche la nostra adorata Business Intelligence. Tutto bello. Tutto utilissimo. Tutto, spesso, fondamentale.
Ogni volta si presenta la stessa illusione e noi ripetiamo come un mantra che basta introdurre lo strumento giusto e il resto migliorerà da sé.
Invece la realtà è più semplice e più scomoda:
la tecnologia non cambia le aziende, amplifica ciò che già sono.
Un’organizzazione confusa diventerà più confusa.
Un’azienda che non comunica bene peggiorerà la sua reputazione.
Un processo sbagliato, se automatizzato, sbaglierà in modo sistematico e non più solo casualmente.
La tecnologia è un acceleratore, non una direzione. Può portarti lontano solo se hai chiaro dove vuoi andare.
Un recente studio del MIT Media Lab — il “GenAI Divide Report 2025” — ha passato al setaccio oltre 300 progetti di adozione di AI generativa nelle grandi aziende di tutto il mondo.
Il verdetto è impietoso: solo il 5% dei pilota riesce a generare una crescita tangibile dei ricavi e meno del 10% lascia un segno misurabile sul business.
Il resto si ferma alla linea di partenza, spesso dopo investimenti ingenti che difficilmente producono un ritorno reale. Ma la colpa non è degli “algoritmi”, che anzi funzionano più che bene.
Il problema è tutto ciò che li circonda:
leadership disallineata (in oltre la metà dei casi le priorità strategiche non coincidono)
processi obsoleti che nessuno ha il coraggio di ripensare (solo il 21% delle aziende ridisegna davvero i propri workflow)
carenze di integrazione IT
lacune di competenze
una resistenza culturale che frena ogni tentativo di cambiamento.
Il paradosso è evidente: mentre le imprese investono gran parte del budget in soluzioni “da vetrina” — chatbot, marketing automation, interfacce spettacolari — i maggiori ritorni arrivano dalle aree meno glamour del back-office, dove una buona automazione può generare risparmi di grandissimo impatto in costi operativi.
Questa è la prova più chiara di tutte: la tecnologia non fallisce. Fallisce chi non la governa.
E fintanto che la cultura aziendale non metterà al centro il cambiamento, questi progetti continueranno a girare a vuoto.
Cultura, processi, persone
Introdurre un nuovo strumento in azienda non è mai un’attività neutra, ma porta sempre con sé conseguenze. Significa, in qualche modo, cambiare il modo in cui le persone pensano, collaborano, decidono.
E il cambiamento - lo sappiamo - fa paura.
Paura di perdere controllo, abitudini, competenze. Per questo l’innovazione non è mai solo una questione di strumenti, ma di change management.
Serve un lavoro interno di allineamento, di ascolto, di costruzione di fiducia.
Le aziende che riescono davvero a innovare non sono quelle più digitali, ma quelle più consapevoli. Quelle che non hanno paura di mettere in discussione i processi, di imparare dai dati, di valorizzare le persone.
Il metodo Ellycode
Quando portiamo la Business Intelligence nelle aziende, non parliamo (solo) di software.
Parliamo innanzitutto di consapevolezza, perché in tutta onestà i dati, da soli, non possono cambiare nulla: è il modo in cui li guardiamo, usiamo, valorizziamo che può cambiare tutto.
Il nostro lavoro comincia proprio lì, nel momento in cui un’azienda decide di non accontentarsi più dei numeri, ma di volerli capire, collegare, interpretare.
Elly nasce da questa esigenza: rendere i dati accessibili, leggibili e soprattutto utili:
non per fare più report, ma per prendere decisioni migliori
non per accumulare informazioni, ma per costruire conoscenza condivisa
La Business Intelligence, se ben integrata nei processi decisionali, diventa un linguaggio comune: un ponte tra reparti, tra persone, tra intuizioni e fatti. È lo spazio in cui la tecnologia incontra la cultura, e dove le organizzazioni iniziano davvero a imparare da sé stesse.
In fondo, è questo che facciamo ogni giorno con Ellycode: aiutare le aziende a trasformare i dati in dialogo e la conoscenza in azione e decisioni consapevoli.
Dietro ogni trasformazione digitale riuscita c’è un’organizzazione che ha scelto di trasformarsi prima di tutto dentro. La tecnologia non è il punto di partenza, ma il risultato di una cultura aziendale che funziona.
Innovare non significa introdurre qualcosa di nuovo, ma abituarsi a cambiare.
Significa creare contesti in cui le persone si fidano dei dati, collaborano, sperimentano. Dove l’errore e il fallimento non sono una minaccia ma un modo per migliorare.
Perché ogni innovazione autentica nasce sempre da un gesto umano: la curiosità di capire come fare oggi meglio di ieri, affinché domani sarà possibile fare meglio di oggi.