L’innovazione è un’attitudine
Tra dati, AI e cultura: il futuro delle aziende passa dalla mentalità, non solo dagli strumenti
Bentornati al nostro appuntamento settimanale sul mondo della Business Intelligence per tutti, che oggi tocca quota 102 e cresce ogni settimana di più. Grazie a chi, in questo percorso, continua a darci idee, stimoli e tanto entusiasmo.
Questa settimana parliamo di innovazione, una parola che usiamo spesso ma che raramente proviamo davvero a definire e su cui, inevitabilmente, si fa anche un po’ di confusione. Per alcuni significa tecnologia, per altri automazione o, più di recente, intelligenza artificiale (ça va sans dire).
Secondo la Treccani, innovazione è l’atto o l’opera di innovare, cioè di introdurre nuovi sistemi, nuovi metodi di produzione o nuovi processi capaci di generare un cambiamento significativo in ambito sociale, economico, tecnologico o organizzativo.
Per noi, invece, significa soprattutto attitudine: la capacità di guardare le cose in modo diverso, di restare curiosi, di non smettere mai di imparare. L’innovazione non comincia da un software o da un algoritmo, ma da una mentalità aperta che mette in discussione il “si è sempre fatto così”. È una forma di allenamento collettivo che coinvolge persone, processi e cultura aziendale.
Perché — come scopriremo tra poco — non basta digitalizzare le abitudini: serve trasformarle in consapevolezza.
E come da tradizione, accompagniamo la lettura con un po’ di musica dalla nostra playlist Data Grooves:
🎵 “Learning to Fly” — Pink Floyd, A Momentary Lapse of Reason (1987)
Un brano che parla di consapevolezza, coraggio e libertà. Perché imparare a volare, come innovare, significa accettare di staccarsi da terra, perdere l’equilibrio per un attimo e fidarsi della spinta che abbiamo costruito dentro di noi.
Negli ultimi anni la trasformazione digitale è diventata un mantra, ma troppo spesso è stata ridotta a una corsa agli strumenti: nuovi CRM, nuovi ERP, nuovi software, nuove AI. Eppure, nonostante gli investimenti, il salto di qualità raramente arriva, facendo crescere disillusione e scarsa fiducia.
Il punto è che la tecnologia è solo l’ultimo miglio di un percorso che parte da molto più lontano.
Prima della digitalizzazione serve un cambio di prospettiva che deve partire dall’interno dell’organizzazione: comprendere l’importanza dei dati, imparare a leggerli e interpretarli, integrare i processi, mettere le persone con visione e compenze in grado di incidere sulle scelte aziendali.
In altre parole serve una cultura capace di vedere la tecnologia non come traguardo, ma come alleata in un allenamento continuo della consapevolezza. La vera innovazione non nasce dai numeri, ma dalle domande che le persone si pongono e dalla curiosità con cui scelgono di guardare oltre.
“L’innovazione è lo strumento specifico dell’imprenditoria: l’atto che favorisce il successo creando nuova capacità di benessere.” (Peter Drucker)
L’apprendimento e l’innovazione sono inseparabili. Chi pensa che ciò che ha funzionato ieri sia sufficiente anche domani, rischia di non vedere la svolta che ha già davanti. E sbagliare, in questo senso, non è un segno di debolezza: è spesso la prova che stiamo davvero innovando.
“Fare le cose vecchie in modo nuovo, questa è innovazione.” (Joseph Schumpeter)
È questa la logica della consapevolezza digitale: non limitarsi a usare strumenti, ma sviluppare la capacità di interpretarli, raccontarli e farne leve di crescita collettiva. Perché ogni innovazione che riesce ad avere un impatto è quella che comincia con una domanda e che solo dopo sfocia in una licenza software.
Cultura del dato ≠ accumulo di fogli excel
Andiamo nel concreto e proviamo a guardare le cose come stanno.
Avere molti dati non significa essere un’azienda data-driven. Una dashboard piena di grafici senza porsi domande è come una libreria piena di libri mai aperti. Serve la curiosità, quella che spinge a chiedersi “perché è successo?” invece di fermarsi a “quanto è successo?”.
È ciò che chiamiamo data curiosity: la capacità di trasformare l’analisi in comprensione.
La vera Business Intelligence non nasce dall’accumulo di numeri, ma dalla volontà di guardare oltre il presente.
“Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato.” (Albert Szent-Györgyi)
Ogni dato è una finestra su qualcosa che ancora non conosciamo. Per questo la cultura del dato non è (solo) un fatto tecnico: è un esercizio di pensiero critico. Un’azienda che incoraggia la curiosità diventa una palestra di apprendimento continuo, in cui i numeri non servono a giudicare, ma a migliorare.
Se l’innovazione è un’attitudine, ci sono tre qualità che la rendono concreta: curiosità, collaborazione e coraggio.
Curiosità
È il motore di ogni cambiamento. In una PMI metalmeccanica, di fronte a un aumento degli scarti, il primo istinto del capo officina fu sostituire un macchinario. Ma analizzando i dati e incrociando i turni di lavoro con i lotti di materia prima, emerse un’anomalia: il problema era un fornitore.
La curiosità ha permesso di risolvere la causa, non solo il sintomo.
Collaborazione
I dati non hanno proprietari. In un’azienda retail, i report delle vendite erano appannaggio del reparto commerciale. Solo quando sono stati condivisi con marketing e logistica si è scoperto che un certo tipo di cliente comprava solo durante le promozioni. Da lì è nato un programma fedeltà mirato, che ha trasformato clienti occasionali in abituali.
Coraggio
È la parte più difficile. Pensiamo a un team che ha lavorato per mesi su un progetto guidato da un’intuizione forte. I primi dati del lancio, però, mostrano che gli utenti non reagiscono come previsto. Il coraggio non è difendere l’idea a ogni costo, ma saper dire:
“L’ipotesi era affascinante, ma i numeri ci stanno dicendo altro. Fermiamoci, ascoltiamoli e cambiamo rotta.”
Questo non è un fallimento: è un segno di maturità, il punto in cui la visione incontra la realtà.
“Se di tanto in tanto non hai degli insuccessi, è segno che non stai facendo nulla di davvero innovativo.” (Woody Allen)
Comprare un software di AI senza una cultura del dato è come regalare una calcolatrice scientifica a chi non conosce le tabelline. Lo strumento è potente, ma inutile se non si sa quale domanda porgli.
La tecnologia è utile solo nella misura in cui ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e il nostro lavoro.
Strumenti come Elly nascono per questo: per amplificare la cultura del dato, non per sostituirla. Per aiutare le persone a dialogare con le informazioni in linguaggio naturale, a scoprire connessioni, a prendere decisioni consapevoli. L’intelligenza artificiale non crea cultura, la riflette. E il modo in cui la usiamo racconta molto più di quanto pensiamo sullo stato di maturità delle nostre organizzazioni.
Il futuro è un modo di guardare
Chi vince è chi sa far parlare i dati. Non chi automatizza di più, ma chi va oltre e riesce a comprende meglio. La cultura del dato sopratutto in un’azienda è una forma di consapevolezza collettiva: è la capacità di ascoltare ciò che la realtà ci dice attraverso le informazioni che produce.
E solo chi sviluppa questa attitudine — quella dell’apprendimento continuo — potrà davvero innovare.
Non serve stravolgere l’azienda da un giorno all’altro. A volte basta iniziare da una domanda. Provate a introdurre nella riunione settimanale uno spazio fisso di cinque minuti chiamato:
“Cosa abbiamo imparato dai dati questa settimana che non sapevamo prima?”
Perché, in fondo, l’innovazione non è un obiettivo, ma un’attitudine 😀